Inediti
Sette carie
Sette carie! Il dottor Günther Marinus, che confidenzialmente chiamavo Marino, me ne aveva diagnosticato sette! Un numero magico o quantomeno evocativo: sette i nani, setti gli antichi savi, sette i vizi, sette le virtù, sette le antiche meraviglie del mondo… Di quelle moderne ne avevo visto cinque: mi mancava il complesso di Chichén Itzà nello Yucatan e la grande muraglia cinese. Ma l’ottava meraviglia del mondo è senz’altro il Pergamon Museum di Berlino, situato nell’isola della Sprea dove i tedeschi sono riusciti a impadronirsi di inestimabili pezzi dell’antica Mesopotamia, alcuni trovati proprio a Tigrit, patria del fu Saddam Hussein. Dopo l’iniezione di anestetico fatta da Olivia (così chiamavo Ingrid, l’infermiera piatta come la compagna di Braccio di Ferro), mi abbandonavo alle mie preferite fantasticherie. Chiudevo gli occhi e un po’ alla volta gli animali mitologici della porta di Ishtar prendevano vita uscendo dall’immobilità di millenni. Leoni alati, magnifiche tigri, leggendari ippogrifi, e altre belve fantastiche mugghiando e ruggendo correvano verso di me, ma quando incominciavano a lambirmi, mi svegliavo improvvisamente e ai ruggiti si sovrapponevano le perforatrici e i martellamenti del mio aguzzino che mi trapanava denti e cervello.
Al Pergamon c’ero stato due volte con la mia ragazza, Brigitta. Proprio per stare sempre attaccato alla mia mega bionda con due gambe da urlo, risiedevo da due anni nella capitale tedesca, nelle vicinanze di Treptow Park Centre, vicino al gigantesco centro commerciale che ospita le profumerie Douglas. Pronuncia “Duglas” e non “Daglas” all’americana, come il nome dell’erotomane Michel, figlio del fu Kirk, quello col buco nel mento che interpretava Spartacus!
Molte signore bene in Italia - dove le catene Douglas non si contano - la pronunciano con strafottenza all’americana, mentre il nome è tedesco e la sede principale è Colonia.
Quando Brigitta ci entrava, facevo a tempo ad andare a visitare tutte le sale dell’Alte National Galerie, a ritornare e stare ancora ad attendere finché, nascosta da mega pacchi e pacchettini infiocchettati in un alone di nauseabondo profumo zuccheroso, non intravedevo le lunghissime gambe di fräulein Brigitta farsi largo tra la gente. L’aroma dolciastro che emanava dal suo corpo era un motivo valido per piantarla; ci avevo pensato più di una volta, ma alla fine sull’odorato prevaleva il tatto. Sissignori, la goduria di palpare quel culo grosso e sodo e le tette a coppa di champagne, demisec! Per la precisione abitavamo in Liegnitzerstrasse, in un bilocale con un piccolo giardino pensile dove la nostra gatta Adolfa si stendeva al sole, quando c’era, o sul terriccio delle piante che curavo personalmente io, quando i miei impegni di marketing me lo permettevano. Brigitta con le sue irresistibili performances da letto mi aveva costretto a chiamarla col nome della sua fu nonna. Io avrei optato per Pussykatze o qualche altra diavoleria del genere, non certo per il femminile di Adolf, proprio in Germania! Ma le arti magiche della mia ragazza spesso mi facevano capitolare...
Solo per le uscite a cena vincevo io. Per fortuna una o due volte alla settimana si cenava alla trattoria “Da Felice”, gestita da un mio corregionale dove potevo gustarmi i troccoli col ragù di pesce e il venerdì anche la fantastica casseruola di polipetti. Il tutto abbinato a un ottimo rosato del Salento. Di Berliner Pilsner e Löwenbräu me ne ero sgolata già abbastanza...
Per la cura dei denti no, non ero riuscito a convincere la mia fräulein. Lei al semplice studio del Doctor Marinus dove una volta mi aveva accompagnato, aveva preferito un centro odontoiatrico megagalattico di tipo hollywoodiano, con 12 stanzini, una ventina di collaboratori, sale da visita con divani supermegaconfortevoli, acquario sotto il pavimento, TV satellitari, sala proiezione, sala riunione, Kinderheim… situato nella zona di Charlottenburg. Io non avrei mai abbandonato la vecchia strada. Anche se Marino non era molto soft nei modi, mi ero affezionato, sì anche a lui, ma soprattutto all’ambiente che offriva ampio spazio alla mia facoltà immaginativa e onirica. Sdraiato nel lettino, quando pinze, trapani, frese si avvicinavano inesorabilmente nella mia bocca già torturata da quel marchingegno che aspira la saliva, a volte, anziché gli animali dell’antica Babilonia mi venivano in mente le scene del film “Denti”. Mi rintronavano negli orecchi le urla disumane del povero Sergio Rubini, alias Antonio, nato con due grossi, incomodi denti incisivi spaccati con due colpi di pesante portacenere dalla fidanzata. Come il protagonista del film che nella nebbia generata dagli analgesici confonde passato e presente, anch’io mi lasciavo avvolgere da fantasticherie di ogni tipo. E come Antonio anch’io qualche volta ero preso dall’ansia di essere tradito dalla prorompente Brigitta. E così una volta anche il sottoscritto, - che pur con vergogna lo ammette - anche il sottoscritto la pedinò.
Era un lunedì pomeriggio, giorno libero della mia ragazza, che lavorava come designer in uno studio di architettura. Mi aveva detto che andava dall’estetista a farsi la ceretta. A bordo di un taxi seguii la sua Opel blu. La vidi svoltare per Reichenberger Strasse, poi dirigersi verso Forster Strasse. Alla fine, la vidi entrare nello spiazzo riservato al palazzone grigio fumo...
No, non era possibile: cosa ci andava a fare dal mio dentista, lei che si curava da tutt’altra parte? La bugiarda! Cercai di non perdere la calma e aspettai un quarto d’ora. Poi, approfittando di uno che usciva dal portone, mi ficcai dentro e chiamai l’ascensore che mi risucchiò in un attimo al quinto piano. Lì feci la stessa cosa infilandomi nello studio dentistico grazie ad una paziente che usciva. La segretaria mi salutò col viso visibilmente arrossato e mi chiese il motivo della visita. Io le dissi che era ceduta un’otturazione e che mi faceva un male boia. La signorina Günther mi fece accomodare nel divano e subito dopo scivolò via. Mi guardai in giro, mi alzai e con decisione percorsi il corridoio che dava accesso alle tre sale operative: due erano socchiuse e lasciavano intravedere le sagome in camice bianco. L’ultima, in fondo, era chiusa. Istintivamente mi accovacciai e spiai attraverso il buco della serratura. Sissignori - lo ammetto - feci quello che più è considerato spregevole, meschino, degradante… ma se non l’avessi fatto, non avrei riconosciuto nel groviglio dei corpi le due inconfondibili super gambe spalancate all’insù. Ecco dove andava la mia ragazza quando diceva di farsi la ceretta! Proprio nel santuario dei miei sogni storico-artistici, Brigitta, profanatrice dei miei innocenti evocativi spazi…
È passato un anno e sto ancora nello stesso bilocale assieme ad un magnifico barboncino nano che al mattino viene sul letto a svegliarmi. E continuo a curarmi le carie nello studio di Marino dove anche adesso mi abbandono alle mie visioni oniriche: alle tigri e ai grifoni alati di Ishtar si sono aggiunti anche alcuni barboncini. E la casseruola di polipetti la mangio ancora da Felice assieme agli amici o a qualche ragazza, quella di turno. Io mi affeziono in primis ai luoghi, poi agli animali, e per ultimo alle persone. Per fortuna!
Sette carie! Il dottor Günther Marinus, che confidenzialmente chiamavo Marino, me ne aveva diagnosticato sette! Un numero magico o quantomeno evocativo: sette i nani, setti gli antichi savi, sette i vizi, sette le virtù, sette le antiche meraviglie del mondo… Di quelle moderne ne avevo visto cinque: mi mancava il complesso di Chichén Itzà nello Yucatan e la grande muraglia cinese. Ma l’ottava meraviglia del mondo è senz’altro il Pergamon Museum di Berlino, situato nell’isola della Sprea dove i tedeschi sono riusciti a impadronirsi di inestimabili pezzi dell’antica Mesopotamia, alcuni trovati proprio a Tigrit, patria del fu Saddam Hussein. Dopo l’iniezione di anestetico fatta da Olivia (così chiamavo Ingrid, l’infermiera piatta come la compagna di Braccio di Ferro), mi abbandonavo alle mie preferite fantasticherie. Chiudevo gli occhi e un po’ alla volta gli animali mitologici della porta di Ishtar prendevano vita uscendo dall’immobilità di millenni. Leoni alati, magnifiche tigri, leggendari ippogrifi, e altre belve fantastiche mugghiando e ruggendo correvano verso di me, ma quando incominciavano a lambirmi, mi svegliavo improvvisamente e ai ruggiti si sovrapponevano le perforatrici e i martellamenti del mio aguzzino che mi trapanava denti e cervello.
Al Pergamon c’ero stato due volte con la mia ragazza, Brigitta. Proprio per stare sempre attaccato alla mia mega bionda con due gambe da urlo, risiedevo da due anni nella capitale tedesca, nelle vicinanze di Treptow Park Centre, vicino al gigantesco centro commerciale che ospita le profumerie Douglas. Pronuncia “Duglas” e non “Daglas” all’americana, come il nome dell’erotomane Michel, figlio del fu Kirk, quello col buco nel mento che interpretava Spartacus!
Molte signore bene in Italia - dove le catene Douglas non si contano - la pronunciano con strafottenza all’americana, mentre il nome è tedesco e la sede principale è Colonia.
Quando Brigitta ci entrava, facevo a tempo ad andare a visitare tutte le sale dell’Alte National Galerie, a ritornare e stare ancora ad attendere finché, nascosta da mega pacchi e pacchettini infiocchettati in un alone di nauseabondo profumo zuccheroso, non intravedevo le lunghissime gambe di fräulein Brigitta farsi largo tra la gente. L’aroma dolciastro che emanava dal suo corpo era un motivo valido per piantarla; ci avevo pensato più di una volta, ma alla fine sull’odorato prevaleva il tatto. Sissignori, la goduria di palpare quel culo grosso e sodo e le tette a coppa di champagne, demisec! Per la precisione abitavamo in Liegnitzerstrasse, in un bilocale con un piccolo giardino pensile dove la nostra gatta Adolfa si stendeva al sole, quando c’era, o sul terriccio delle piante che curavo personalmente io, quando i miei impegni di marketing me lo permettevano. Brigitta con le sue irresistibili performances da letto mi aveva costretto a chiamarla col nome della sua fu nonna. Io avrei optato per Pussykatze o qualche altra diavoleria del genere, non certo per il femminile di Adolf, proprio in Germania! Ma le arti magiche della mia ragazza spesso mi facevano capitolare...
Solo per le uscite a cena vincevo io. Per fortuna una o due volte alla settimana si cenava alla trattoria “Da Felice”, gestita da un mio corregionale dove potevo gustarmi i troccoli col ragù di pesce e il venerdì anche la fantastica casseruola di polipetti. Il tutto abbinato a un ottimo rosato del Salento. Di Berliner Pilsner e Löwenbräu me ne ero sgolata già abbastanza...
Per la cura dei denti no, non ero riuscito a convincere la mia fräulein. Lei al semplice studio del Doctor Marinus dove una volta mi aveva accompagnato, aveva preferito un centro odontoiatrico megagalattico di tipo hollywoodiano, con 12 stanzini, una ventina di collaboratori, sale da visita con divani supermegaconfortevoli, acquario sotto il pavimento, TV satellitari, sala proiezione, sala riunione, Kinderheim… situato nella zona di Charlottenburg. Io non avrei mai abbandonato la vecchia strada. Anche se Marino non era molto soft nei modi, mi ero affezionato, sì anche a lui, ma soprattutto all’ambiente che offriva ampio spazio alla mia facoltà immaginativa e onirica. Sdraiato nel lettino, quando pinze, trapani, frese si avvicinavano inesorabilmente nella mia bocca già torturata da quel marchingegno che aspira la saliva, a volte, anziché gli animali dell’antica Babilonia mi venivano in mente le scene del film “Denti”. Mi rintronavano negli orecchi le urla disumane del povero Sergio Rubini, alias Antonio, nato con due grossi, incomodi denti incisivi spaccati con due colpi di pesante portacenere dalla fidanzata. Come il protagonista del film che nella nebbia generata dagli analgesici confonde passato e presente, anch’io mi lasciavo avvolgere da fantasticherie di ogni tipo. E come Antonio anch’io qualche volta ero preso dall’ansia di essere tradito dalla prorompente Brigitta. E così una volta anche il sottoscritto, - che pur con vergogna lo ammette - anche il sottoscritto la pedinò.
Era un lunedì pomeriggio, giorno libero della mia ragazza, che lavorava come designer in uno studio di architettura. Mi aveva detto che andava dall’estetista a farsi la ceretta. A bordo di un taxi seguii la sua Opel blu. La vidi svoltare per Reichenberger Strasse, poi dirigersi verso Forster Strasse. Alla fine, la vidi entrare nello spiazzo riservato al palazzone grigio fumo...
No, non era possibile: cosa ci andava a fare dal mio dentista, lei che si curava da tutt’altra parte? La bugiarda! Cercai di non perdere la calma e aspettai un quarto d’ora. Poi, approfittando di uno che usciva dal portone, mi ficcai dentro e chiamai l’ascensore che mi risucchiò in un attimo al quinto piano. Lì feci la stessa cosa infilandomi nello studio dentistico grazie ad una paziente che usciva. La segretaria mi salutò col viso visibilmente arrossato e mi chiese il motivo della visita. Io le dissi che era ceduta un’otturazione e che mi faceva un male boia. La signorina Günther mi fece accomodare nel divano e subito dopo scivolò via. Mi guardai in giro, mi alzai e con decisione percorsi il corridoio che dava accesso alle tre sale operative: due erano socchiuse e lasciavano intravedere le sagome in camice bianco. L’ultima, in fondo, era chiusa. Istintivamente mi accovacciai e spiai attraverso il buco della serratura. Sissignori - lo ammetto - feci quello che più è considerato spregevole, meschino, degradante… ma se non l’avessi fatto, non avrei riconosciuto nel groviglio dei corpi le due inconfondibili super gambe spalancate all’insù. Ecco dove andava la mia ragazza quando diceva di farsi la ceretta! Proprio nel santuario dei miei sogni storico-artistici, Brigitta, profanatrice dei miei innocenti evocativi spazi…
È passato un anno e sto ancora nello stesso bilocale assieme ad un magnifico barboncino nano che al mattino viene sul letto a svegliarmi. E continuo a curarmi le carie nello studio di Marino dove anche adesso mi abbandono alle mie visioni oniriche: alle tigri e ai grifoni alati di Ishtar si sono aggiunti anche alcuni barboncini. E la casseruola di polipetti la mangio ancora da Felice assieme agli amici o a qualche ragazza, quella di turno. Io mi affeziono in primis ai luoghi, poi agli animali, e per ultimo alle persone. Per fortuna!
Nomen omen
Attraversando il ponte Eugenia osservò le cime delle montagne ancora avvolte da una leggera nebbiolina, poi lo sguardo si abbassò verso fiume: era di un colore grigiastro e lo scorrere dell’acqua produceva un gorgoglio cupo, inquietante. Superò l’arco e girò a sinistra trovandosi di fronte all’ufficio postale. Si accodò a un gruppo di persone col volto coperto da mascherine, distanziate, in attesa di entrare. Negozi, bar e ristoranti riaperti dopo il lungo lockdown imposto dalla pandemia, a breve sarebbero tornati agli orari contingentati se non addirittura chiusi a causa del diffondersi di nuove infide varianti. Altre sfortunate creature sarebbero state intubate con l’assillo di morire in solitudine. Medici e infermieri, spossati dai turni massacranti, si sarebbero accasciati sulle consolle dei PC come si era visto nei notiziari che in quei giorni propinavano volti di negazionisti un tempo gonfi di baldanza, ora prostrati, intenti a esortare la gente a vaccinarsi. Eugenia pensò a quale futuro si profilava per i giovani e soprattutto gli adolescenti, ingoiati in una società spesso alienante, ingobbiti per ore sui tablet, inerti perché privi di sani riferimenti e ideali, non avvezzi a imposizioni. La tecnologia più avanzata, le inimmaginate risorse del web li avevano intrappolati in una rete più subdola. Se con un “clic” potevano collegarsi con l’utente più lontano, ora con un “toc” facevano fatica a recarsi dall’amico più vicino. La pandemia da Covid oltre ad aver acuito le preesistenti disuguaglianze sul piano economico a sfavore di miliardi di poveri, aveva prodotto una penosa sensazione di smarrimento, un senso di vuoto nel vuoto, addolcito dal riecheggiante e melenso refrain del “ritorno alla normalità”. Niente di più sbagliato, pensava Eugenia: non serviva ritornare allo status quo, bisognava ri-generare la società, cioè generarla ex novo con una conversione radicale del nostro modo di vivere. Non è la distanza corporea la cosa peggiore, bensì quella sociale, morale ed economica. Un individuo può socializzare con un suo simile anche senza toccarsi fisicamente, se l’anima è capace di relazionarsi, se riesce a comunicare e scambiare gesti o sguardi significativi. Ma l’egoismo ci blocca, è l’individualismo il veleno dell’uomo, l’indifferenza il focolaio in cui nidificano i virus patologici, ideologici e sociali…Certamente screening, distanziamento, tamponi e vaccini servono per limitare il contagio, ma occorre un antidoto più potente. E l’antidoto consiste proprio nel lasciarsi contagiare, sì “contagiare” dalla bellezza, dal desiderio di cooperare, dalla volontà di tutelare l’ambiente. Invece l’uomo negli ultimi decenni ha trasformato la natura in un contenitore di rifiuti…Ci accusano le foreste di mangrovie, i pesci al mercurio, i coralli cadaverici, i canti esausti degli uccelli, l’aria che respiriamo… Ad Eugenia sembrò di sentire gli ululati degli oranghi, i trilli dell’allodola messaggera di un’alba minacciata… anche l’anguilla, la sirena dei mari freddi immortalata nei versi del suo poeta preferito (che portava il suo stesso nome), era a rischio di estinzione per l’inquinamento... Ci voleva una ragazzina che gridasse “Il re è nudo” per svegliare dal colpevole torpore i potenti della Terra, che anziché ponti umanitari innalzano muri, torri e muraglie destinate a crollare perché privi di solide e solidali fondamenta.. In tutto quel brulichio, quell’affastellarsi di pensieri e immagini si convinse che da quel giorno si sarebbe adoperata per plasmare la fisionomia del mondo. Bastava partire da piccoli gesti quotidiani di rispetto verso la Natura, aprirsi alle altre creature, adottare uno stile di vita sano, effettuare correttamente la raccolta differenziata, ridurre al minimo plastica usa e getta...
«Signora, signora, tocca a lei!» Un colpetto sulle spalle la scosse dal flusso dei pensieri. «Come? Ah… sì, grazie» rispose la ragazza, entrando trafelata per la porta scorrevole, mentre l‘eco della sirena di un’ambulanza le giungeva alle orecchie. Prese il numero dal totem touch screen, si abbassò per misurare la temperatura sul termoscanner, strofinò un po’ di gel sulle mani e aspettò il suo turno. Allo sportello consegnò il bollettino con la quota mensile per l’adozione a distanza. Chissà come Beatriz starà vivendo questa emergenza in Brasile - pensò- nel subcontinente in cui il presidente ha boicottato le politiche sanitarie ed è stato accusato di crimini contro l’umanità? Da vari mesi non mi hanno più comunicato sue notizie, forse è morta. Una lacrima le rigò la guancia, ritirò la ricevuta del versamento, ringraziò l’impiegata, guardò i clienti indaffarati ai vari sportelli: tante piccole azioni avrebbero cambiato il mondo. Raccolse un foglio da terra restituendolo al proprietario, aiutò un signore zoppicante a premere l’apposito tasto sul totem. Alla fine, uscì. Inspirò a pieni polmoni l’aria del mattino. Anche le ultime lingue di nebbia si erano dileguate ed Eugenia notò con disappunto che sulle fioriere di cemento c’erano alcune bottigliette di plastica, indossò i guanti monouso, le raccolse e le gettò nel bidone della plastica. Vide vicino al cassonetto una specie di piccola lumaca, la raccolse e la osservò: era una conchiglia a forma di spirale, un fossile, sembrava proprio un “corno di Ammone” come l’aveva definita Plinio il Vecchio. Chissà quanti milioni di anni aveva, come aveva fatto ad arrivare là, quanta storia racchiudeva nella sua voluta. Le venne in mente l’ode che il prete e poeta vicentino aveva dedicato proprio alla conchiglia fossile trovata in montagna e recitò a mente gli ultimi tre versi: “Attenda sull’àncora /il cenno divino/ per novo cammino”. Quel ritrovamento non poteva essere casuale, era un segno del cielo, un monito a imboccare un nuovo percorso. E il suo stesso nome formato da due parole di origine greca “Ben nata”, era foriero di speranza, rinascita, ri-generazione.
Attraversando il ponte Eugenia osservò le cime delle montagne ancora avvolte da una leggera nebbiolina, poi lo sguardo si abbassò verso fiume: era di un colore grigiastro e lo scorrere dell’acqua produceva un gorgoglio cupo, inquietante. Superò l’arco e girò a sinistra trovandosi di fronte all’ufficio postale. Si accodò a un gruppo di persone col volto coperto da mascherine, distanziate, in attesa di entrare. Negozi, bar e ristoranti riaperti dopo il lungo lockdown imposto dalla pandemia, a breve sarebbero tornati agli orari contingentati se non addirittura chiusi a causa del diffondersi di nuove infide varianti. Altre sfortunate creature sarebbero state intubate con l’assillo di morire in solitudine. Medici e infermieri, spossati dai turni massacranti, si sarebbero accasciati sulle consolle dei PC come si era visto nei notiziari che in quei giorni propinavano volti di negazionisti un tempo gonfi di baldanza, ora prostrati, intenti a esortare la gente a vaccinarsi. Eugenia pensò a quale futuro si profilava per i giovani e soprattutto gli adolescenti, ingoiati in una società spesso alienante, ingobbiti per ore sui tablet, inerti perché privi di sani riferimenti e ideali, non avvezzi a imposizioni. La tecnologia più avanzata, le inimmaginate risorse del web li avevano intrappolati in una rete più subdola. Se con un “clic” potevano collegarsi con l’utente più lontano, ora con un “toc” facevano fatica a recarsi dall’amico più vicino. La pandemia da Covid oltre ad aver acuito le preesistenti disuguaglianze sul piano economico a sfavore di miliardi di poveri, aveva prodotto una penosa sensazione di smarrimento, un senso di vuoto nel vuoto, addolcito dal riecheggiante e melenso refrain del “ritorno alla normalità”. Niente di più sbagliato, pensava Eugenia: non serviva ritornare allo status quo, bisognava ri-generare la società, cioè generarla ex novo con una conversione radicale del nostro modo di vivere. Non è la distanza corporea la cosa peggiore, bensì quella sociale, morale ed economica. Un individuo può socializzare con un suo simile anche senza toccarsi fisicamente, se l’anima è capace di relazionarsi, se riesce a comunicare e scambiare gesti o sguardi significativi. Ma l’egoismo ci blocca, è l’individualismo il veleno dell’uomo, l’indifferenza il focolaio in cui nidificano i virus patologici, ideologici e sociali…Certamente screening, distanziamento, tamponi e vaccini servono per limitare il contagio, ma occorre un antidoto più potente. E l’antidoto consiste proprio nel lasciarsi contagiare, sì “contagiare” dalla bellezza, dal desiderio di cooperare, dalla volontà di tutelare l’ambiente. Invece l’uomo negli ultimi decenni ha trasformato la natura in un contenitore di rifiuti…Ci accusano le foreste di mangrovie, i pesci al mercurio, i coralli cadaverici, i canti esausti degli uccelli, l’aria che respiriamo… Ad Eugenia sembrò di sentire gli ululati degli oranghi, i trilli dell’allodola messaggera di un’alba minacciata… anche l’anguilla, la sirena dei mari freddi immortalata nei versi del suo poeta preferito (che portava il suo stesso nome), era a rischio di estinzione per l’inquinamento... Ci voleva una ragazzina che gridasse “Il re è nudo” per svegliare dal colpevole torpore i potenti della Terra, che anziché ponti umanitari innalzano muri, torri e muraglie destinate a crollare perché privi di solide e solidali fondamenta.. In tutto quel brulichio, quell’affastellarsi di pensieri e immagini si convinse che da quel giorno si sarebbe adoperata per plasmare la fisionomia del mondo. Bastava partire da piccoli gesti quotidiani di rispetto verso la Natura, aprirsi alle altre creature, adottare uno stile di vita sano, effettuare correttamente la raccolta differenziata, ridurre al minimo plastica usa e getta...
«Signora, signora, tocca a lei!» Un colpetto sulle spalle la scosse dal flusso dei pensieri. «Come? Ah… sì, grazie» rispose la ragazza, entrando trafelata per la porta scorrevole, mentre l‘eco della sirena di un’ambulanza le giungeva alle orecchie. Prese il numero dal totem touch screen, si abbassò per misurare la temperatura sul termoscanner, strofinò un po’ di gel sulle mani e aspettò il suo turno. Allo sportello consegnò il bollettino con la quota mensile per l’adozione a distanza. Chissà come Beatriz starà vivendo questa emergenza in Brasile - pensò- nel subcontinente in cui il presidente ha boicottato le politiche sanitarie ed è stato accusato di crimini contro l’umanità? Da vari mesi non mi hanno più comunicato sue notizie, forse è morta. Una lacrima le rigò la guancia, ritirò la ricevuta del versamento, ringraziò l’impiegata, guardò i clienti indaffarati ai vari sportelli: tante piccole azioni avrebbero cambiato il mondo. Raccolse un foglio da terra restituendolo al proprietario, aiutò un signore zoppicante a premere l’apposito tasto sul totem. Alla fine, uscì. Inspirò a pieni polmoni l’aria del mattino. Anche le ultime lingue di nebbia si erano dileguate ed Eugenia notò con disappunto che sulle fioriere di cemento c’erano alcune bottigliette di plastica, indossò i guanti monouso, le raccolse e le gettò nel bidone della plastica. Vide vicino al cassonetto una specie di piccola lumaca, la raccolse e la osservò: era una conchiglia a forma di spirale, un fossile, sembrava proprio un “corno di Ammone” come l’aveva definita Plinio il Vecchio. Chissà quanti milioni di anni aveva, come aveva fatto ad arrivare là, quanta storia racchiudeva nella sua voluta. Le venne in mente l’ode che il prete e poeta vicentino aveva dedicato proprio alla conchiglia fossile trovata in montagna e recitò a mente gli ultimi tre versi: “Attenda sull’àncora /il cenno divino/ per novo cammino”. Quel ritrovamento non poteva essere casuale, era un segno del cielo, un monito a imboccare un nuovo percorso. E il suo stesso nome formato da due parole di origine greca “Ben nata”, era foriero di speranza, rinascita, ri-generazione.
Alla carta geografica
«Adesso chiudete libri e quaderni!» proferì la professoressa di Storia, una zitella inacidita piccola e ossuta con i lunghi capelli grigiastri raccolti in una treccia che le coronava il volto cereo in cui due occhietti a spillo erano pronti a perforare i suoi allievi. Di un’età indefinibile che la faceva sembrare una donna d’altri tempi, appariva lontana e temibile, addirittura sadica quando un cinico sorriso le illuminava il volto. Non poteva attuarsi alcun tipo di dialogo con lei, solo precise risposte ad altrettanto precise domande. Era il 27 gennaio 1967 e qualche ora prima la radio aveva annunciato il suicidio di Luigi Tenco. Marzia, una ragazzina sensibile ed emotiva, si era recata a scuola in preda ad una profonda inquietudine, con il conforto almeno di non correre il rischio di un’interrogazione. Era stata la stessa insegnante a comunicare agli allievi che quel giorno non avrebbe interrogato. Ma la frase d’esordio non prometteva niente di buono, era il caratteristico leitmotiv che anticipava le interrogazioni. «Scusi, professoressa» intervenne Guido, il capoclasse, un ragazzo rubicondo con il volto coperto di efelidi «lei ci aveva detto che oggi avrebbe solo spiegato!». Con un’espressione tra l’ironico e il beffardo l’insegnante, mantenendo inalterato il self-control, si trincerò dietro la labile giustificazione che si trattava semplicemente di un ripasso di argomenti già svolti. Il panico si era letteralmente impossessato di Marzia, che, seduta in prima fila, si apprestava a chiuder il manuale di storia di quarta ginnasio come era stato ordinato con voce secca e tagliente Dio mio, fa’ che non chiami proprio me!, pregò in cuor suo la ragazza mentre nella mente andava configurandosi con insistenza la dinamica del suicidio del giovane cantante. Però, lui aveva avuto il coraggio di premere il grilletto! pensava tra sé e sé. Era un po’ di tempo che anche nel suo animo avevano nidificato delle idee autodistruttive ma lei non ne aveva fatto cenno con nessuno. L’insegnante tossì, inspirò, si sistemò il colletto della camicia, diede un’occhiata alla scolaresca, aprì il registro e con l’indice della mano destra scorse i cognomi degli alunni soffermandosi circa a metà dell’elenco. «Liquidi Marzia, esci!» intimò alla ragazza che sentì lo stomaco contrarsi per l’apprensione. Costei si alzò dal banco e su segnalazione della docente, si avvicinò alla carta geografica dell’antica Grecia. «Bene, ora ripassiamo insieme le guerre persiane, naturalmente indicando battaglie e luoghi sulla cartina!» disse con voce melliflua la professoressa. La sventurata, emettendo la voce gutturale e strozzata tipica dell’ansioso, cercò di riportare alla memoria le cause delle guerre e di collocare ne tempo gli avvenimenti: Ma l’angoscia si era a tal punto impadronita di lei che confuse Maratona con Filippi e Dario addirittura con Alesando il Macedone! Fu certa di percepire una vibrazione sarcastica nella sonora risata dell’insegnante che allungava orrendamente le labbra sottili e violacee. Marzia aveva sviluppato in modo marcato l’udito e l’odorato, forse a compensazione di una forte miopia visiva. Le immagini le apparivano offuscate e confuse a causa di un obsoleto quanto dannoso consiglio datole in famiglia di non portare gli occhiali che le avrebbero deturpato il volto. Li indossava solo se era costretta, quando doveva copiare qualcosa dalla lavagna o quando guardava un film al cinema, affrettandosi a toglierli e a nasconderli furtivamente non appena ritornava la luce per l’intervallo. Si sentiva un mostro con le lenti addosso, per cui era solita camminare per la strada senza riconoscere nessuno, a volte tacciata di snobismo per non aver salutato un’amica. Anche in quel momento i famigerati occhiali stavano a riposo nella custodia di velluto verde sopra il banco a pochi metri da dove si trovava lei. E quando l’insegnante le chiese di indicare sulla carta la Beozia e il Peloponneso, le sarebbe bastato dire: «Mi scusi, professoressa, devo prendere gli occhiali perché non ci vedo!». Ma Marzia non riuscì a spiccicare sillaba, bloccata dal terrore. Rimase ferma al suo posto stecchita come un baccalà, zimbello dei compagni e di se stessa. Forse si aspettava che fosse l’insegnante a ricordarsi del suo difetto alla vista e che premurosamente la esortasse a prender gli occhiali, ma ciò non avvenne. Con la vista appannata per le lacrime che si erano formate, guardava sulla carta geografica le grandi e informi macchie colorate senza nome. Desiderò morire. Da un soffocato vocio della scolaresca le parve di intuire la solidarietà dei compagni che avevano capito il suo disagio. Ecco adesso il capoclasse o qualcun altro alzerà la mano, prenderà la parola in mia difesa e spiegherà alla professoressa il problema!, pensava in cuor suo, ma nessuno proferì parola. Furono le parole dell’insegnante a rompere il silenzio: «Allora, Marzia, sai indicarmi o no la Beozia?». Cocenti lacrime ormai senza freno scorrevano per le guance arrossate della ragazza, che oppressa dalla rabbia e dalla vergogna, si sentiva svenire. Ancora una volta il silenzio fu rotto dalla stridula che incalzava: «E il Peloponneso, dov’è, dov’èèè?».Marzia si era ormai completamente estraniata dalla situazione, il suo pensiero era rivolto a Luigi Tenco che, bene o male, aveva avuto il coraggio di spararsi alla testa. «Vai al posto!» concluse in modo secco l’insegnante guardandola con disprezzo. Marzia come un automa andò a sedersi, cercò nella tasca del grembiule ma non trovò niente, così accettò il fazzoletto che Barbara, la compagna di banco, ammutolita, le aveva offerto. Si asciugò le lacrime e guardò l’orologio: mancavano solo pochi minuti alle tredici. La campanella finalmente suonò. Le parve un suono strano, diverso dal solito, annunciatore di perdita. La ragazza preparò la cartella, infilò gli occhiali nella tasca del cappotto, si mise in fila ed uscì dal grande portone del Liceo “Leonardo da Vinci”. Camminava lentamente sotto il peso della cocente umiliazione. Le lacrime continuavano a rigarle le guance ma una sensazione di pace interiore pian piano venne a sostituirsi all’angoscia. Quando, all’altezza del capitello di San Rocco, giunse alla seconda svolta che l’avrebbe portata a casa, Marzia istintivamente tirò dritto. Accelerò il passo e continuò a camminare rasente la carreggiata per ore e ore senza sapere dove andava. Alcune automobili avevano rallentato accostandosi, due ciclisti le avevano fischiato. Quanta strada aveva fatto, non lo sapeva nemmeno lei... Non sentiva né il freddo né la fame, inghiottiva le lacrime e camminava. Ad un certo punto volle guardare l’orologio. Le quattro! Aveva camminato per tre ore! Chissà cosa fanno a casa non vedendomi tornare, pensò, chissà se l’hanno riferito a mio padre! Forse verrà lui in cerca di me! Forse hanno chiamato i carabinieri... Il padre! Da quanto tempo non lo vedeva? Tre, forse quattro mesi... Completamente immersa in questi pensieri, Marzia non si accorse di essere scivolata dal tratto riservato ai pedoni nella corsia stradale. E nemmeno riuscì a sentire il forte suono del clacson del camion che stava per superarla...
«Adesso chiudete libri e quaderni!» proferì la professoressa di Storia, una zitella inacidita piccola e ossuta con i lunghi capelli grigiastri raccolti in una treccia che le coronava il volto cereo in cui due occhietti a spillo erano pronti a perforare i suoi allievi. Di un’età indefinibile che la faceva sembrare una donna d’altri tempi, appariva lontana e temibile, addirittura sadica quando un cinico sorriso le illuminava il volto. Non poteva attuarsi alcun tipo di dialogo con lei, solo precise risposte ad altrettanto precise domande. Era il 27 gennaio 1967 e qualche ora prima la radio aveva annunciato il suicidio di Luigi Tenco. Marzia, una ragazzina sensibile ed emotiva, si era recata a scuola in preda ad una profonda inquietudine, con il conforto almeno di non correre il rischio di un’interrogazione. Era stata la stessa insegnante a comunicare agli allievi che quel giorno non avrebbe interrogato. Ma la frase d’esordio non prometteva niente di buono, era il caratteristico leitmotiv che anticipava le interrogazioni. «Scusi, professoressa» intervenne Guido, il capoclasse, un ragazzo rubicondo con il volto coperto di efelidi «lei ci aveva detto che oggi avrebbe solo spiegato!». Con un’espressione tra l’ironico e il beffardo l’insegnante, mantenendo inalterato il self-control, si trincerò dietro la labile giustificazione che si trattava semplicemente di un ripasso di argomenti già svolti. Il panico si era letteralmente impossessato di Marzia, che, seduta in prima fila, si apprestava a chiuder il manuale di storia di quarta ginnasio come era stato ordinato con voce secca e tagliente Dio mio, fa’ che non chiami proprio me!, pregò in cuor suo la ragazza mentre nella mente andava configurandosi con insistenza la dinamica del suicidio del giovane cantante. Però, lui aveva avuto il coraggio di premere il grilletto! pensava tra sé e sé. Era un po’ di tempo che anche nel suo animo avevano nidificato delle idee autodistruttive ma lei non ne aveva fatto cenno con nessuno. L’insegnante tossì, inspirò, si sistemò il colletto della camicia, diede un’occhiata alla scolaresca, aprì il registro e con l’indice della mano destra scorse i cognomi degli alunni soffermandosi circa a metà dell’elenco. «Liquidi Marzia, esci!» intimò alla ragazza che sentì lo stomaco contrarsi per l’apprensione. Costei si alzò dal banco e su segnalazione della docente, si avvicinò alla carta geografica dell’antica Grecia. «Bene, ora ripassiamo insieme le guerre persiane, naturalmente indicando battaglie e luoghi sulla cartina!» disse con voce melliflua la professoressa. La sventurata, emettendo la voce gutturale e strozzata tipica dell’ansioso, cercò di riportare alla memoria le cause delle guerre e di collocare ne tempo gli avvenimenti: Ma l’angoscia si era a tal punto impadronita di lei che confuse Maratona con Filippi e Dario addirittura con Alesando il Macedone! Fu certa di percepire una vibrazione sarcastica nella sonora risata dell’insegnante che allungava orrendamente le labbra sottili e violacee. Marzia aveva sviluppato in modo marcato l’udito e l’odorato, forse a compensazione di una forte miopia visiva. Le immagini le apparivano offuscate e confuse a causa di un obsoleto quanto dannoso consiglio datole in famiglia di non portare gli occhiali che le avrebbero deturpato il volto. Li indossava solo se era costretta, quando doveva copiare qualcosa dalla lavagna o quando guardava un film al cinema, affrettandosi a toglierli e a nasconderli furtivamente non appena ritornava la luce per l’intervallo. Si sentiva un mostro con le lenti addosso, per cui era solita camminare per la strada senza riconoscere nessuno, a volte tacciata di snobismo per non aver salutato un’amica. Anche in quel momento i famigerati occhiali stavano a riposo nella custodia di velluto verde sopra il banco a pochi metri da dove si trovava lei. E quando l’insegnante le chiese di indicare sulla carta la Beozia e il Peloponneso, le sarebbe bastato dire: «Mi scusi, professoressa, devo prendere gli occhiali perché non ci vedo!». Ma Marzia non riuscì a spiccicare sillaba, bloccata dal terrore. Rimase ferma al suo posto stecchita come un baccalà, zimbello dei compagni e di se stessa. Forse si aspettava che fosse l’insegnante a ricordarsi del suo difetto alla vista e che premurosamente la esortasse a prender gli occhiali, ma ciò non avvenne. Con la vista appannata per le lacrime che si erano formate, guardava sulla carta geografica le grandi e informi macchie colorate senza nome. Desiderò morire. Da un soffocato vocio della scolaresca le parve di intuire la solidarietà dei compagni che avevano capito il suo disagio. Ecco adesso il capoclasse o qualcun altro alzerà la mano, prenderà la parola in mia difesa e spiegherà alla professoressa il problema!, pensava in cuor suo, ma nessuno proferì parola. Furono le parole dell’insegnante a rompere il silenzio: «Allora, Marzia, sai indicarmi o no la Beozia?». Cocenti lacrime ormai senza freno scorrevano per le guance arrossate della ragazza, che oppressa dalla rabbia e dalla vergogna, si sentiva svenire. Ancora una volta il silenzio fu rotto dalla stridula che incalzava: «E il Peloponneso, dov’è, dov’èèè?».Marzia si era ormai completamente estraniata dalla situazione, il suo pensiero era rivolto a Luigi Tenco che, bene o male, aveva avuto il coraggio di spararsi alla testa. «Vai al posto!» concluse in modo secco l’insegnante guardandola con disprezzo. Marzia come un automa andò a sedersi, cercò nella tasca del grembiule ma non trovò niente, così accettò il fazzoletto che Barbara, la compagna di banco, ammutolita, le aveva offerto. Si asciugò le lacrime e guardò l’orologio: mancavano solo pochi minuti alle tredici. La campanella finalmente suonò. Le parve un suono strano, diverso dal solito, annunciatore di perdita. La ragazza preparò la cartella, infilò gli occhiali nella tasca del cappotto, si mise in fila ed uscì dal grande portone del Liceo “Leonardo da Vinci”. Camminava lentamente sotto il peso della cocente umiliazione. Le lacrime continuavano a rigarle le guance ma una sensazione di pace interiore pian piano venne a sostituirsi all’angoscia. Quando, all’altezza del capitello di San Rocco, giunse alla seconda svolta che l’avrebbe portata a casa, Marzia istintivamente tirò dritto. Accelerò il passo e continuò a camminare rasente la carreggiata per ore e ore senza sapere dove andava. Alcune automobili avevano rallentato accostandosi, due ciclisti le avevano fischiato. Quanta strada aveva fatto, non lo sapeva nemmeno lei... Non sentiva né il freddo né la fame, inghiottiva le lacrime e camminava. Ad un certo punto volle guardare l’orologio. Le quattro! Aveva camminato per tre ore! Chissà cosa fanno a casa non vedendomi tornare, pensò, chissà se l’hanno riferito a mio padre! Forse verrà lui in cerca di me! Forse hanno chiamato i carabinieri... Il padre! Da quanto tempo non lo vedeva? Tre, forse quattro mesi... Completamente immersa in questi pensieri, Marzia non si accorse di essere scivolata dal tratto riservato ai pedoni nella corsia stradale. E nemmeno riuscì a sentire il forte suono del clacson del camion che stava per superarla...
Il tunnel
Pum…pum…pum… un martellante, assordante rimbombo… un trapestio continuo e cadenzato sul pietrisco dentro un lungo tunnel scavato nella roccia… Scarponi, sì sono degli scarponi che pestano per terra… Un po’ alla volta ecco delinearsi anche la divisa, l’elmo: è un soldato che da solo avanza, avanza senza sosta… Lo stridore di questo calpestio associato al rintocco del battito del cuore produce un rombo inquietante: è il suo o il mio cuore a battere? Quasi ogni notte, appoggiato il capo sul guanciale, questo frastuono lancinante e sinistro mi aspettava puntuale come la maestra in classe pronta ad affibbiarci un cinque se i compiti per casa non erano eseguiti per bene. Nonostante il sogno mi procurasse angoscia e stordimento una parte di me desiderava che quelle immagini affiorassero e quando non arrivavano le cercavo io stessa tra le pieghe della memoria dove le rinvenivo e allora il ricordo di quanto visto si accavallava col nuovo sogno... Quel pum pum pum ormai era diventato familiare. Il soldato sembrava intrappolato nel tunnel, i suoi passi non avevano fine; allora io mi sforzavo di indicargli un varco, un’apertura per fuggire da quello stretto traforo. Gridavo, urlavo ma le parole erano come strozzate, trattenute da una forza oscura e attanagliante che mi faceva svegliare madida di sudore con la bocca impastata e gli arti rattrappiti. Allora inspiravo a fondo rifugiando il mio cuore nella preghiera e coricandomi poi dall’altra parte con l’orecchio sul cuscino. Non so bene il perché, ma sta di fatto che di questo sogno non parlai mai con nessuno. «Mi raccomando, ragazzi, per casa fate una bella ricerca aiutandovi con altri testi e soprattutto intervistando parenti ed amici» ci intimò la prof. dopo averci spiegato in varie lezioni la Seconda guerra mondiale. Quello stesso giorno, dopo aver pranzato, volli subito documentarmi sull’argomento ancor prima di chiedere informazioni a genitori e nonni. Tirando fuori dallo scaffale un volume dell’Enciclopedia per Ragazzi, notai una scatola seminascosta. Ero sola a casa quel pomeriggio e spinta da grande curiosità, l’aprii. Ne uscirono dei fogli ingialliti scritti a mano, qualche cartolina, alcune lettere sgualcite e delle vecchie fotografie in bianco e nero o color seppia. In preda a forte emozione le sfogliai tra le dita finché mi si presentò davanti un giovane uomo con i pantaloni alla zuava, lo sguardo dolce e fiero e un sorriso appena abbozzato all’ombra di uno strano berretto. Ritratto con una gamba inclinata davanti l’altra, con un braccio stava appoggiato al tronco di un grosso albero di fronte a una baracca di legno. Guardai meglio: sotto i pantaloni che coprivano i ginocchi, delle ghette e ancora più sotto i piedi infilati in un paio di scarponi scuri chiusi con lacci. Nel retro della fotografia con una calligrafia aggraziata si poteva leggere la data e il nome della località.«Te le avrei mostrate io» disse mio padre rientrato. Le sue parole improvvise mi fecero sobbalzare. «Aspettavo solo che avessi l’età giusta per capire il dramma della guerra. E ora ce l’hai.» «Sei tu questo?» gli chiesi puntando l’indice sul giovane soldato. «Sì, cara, questo è tuo padre a ventiquattro anni, quando venne mandato in Russia nella zona del Don.» «Hai combattuto in Russia?» gli chiesi sbalordita. «Sono partito arruolato nell’Amir ma per fortuna sono tornato in Italia prima del grande freddo. La malattia mortale che colpì il tuo povero zio, mio fratello, sortì il mio ritorno in patria e la mia salvezza.» «Ti facevano male questi scarponi?» gli domandai. «Non erano certo comodi come pantofole ma mi ci abituai. Nel ritorno verso casa feci centinaia di km a piedi. Non sono gli scarponi chiodati indossati dai soldati che affrontarono il grande gelo» precisò. «A quaranta gradi sottozero, dai fori delle suole entrava l’umidità che faceva assiderare i piedi. Più di uno si trovò gli alluci troncati senza nemmeno accorgersene perché il congelamento fungeva da anestesia.» Continuavo a guardare sbigottita quelle grosse scarpe: com’era possibile che io le avessi viste, sentite pestare il ghiaino anni prima ignorando che mio padre era stato nella campagna di Russia? Il cuore mi batteva forte nel petto mentre stavo per raccontargli le visioni che popolavano i miei sonni in cui io, sua figlia nel sogno diventavo sua madre, ma una forza misteriosa mi trattenne inducendomi a conservarle gelosamente nello scrigno della mia memoria. Anche adesso a distanza di decenni mi capita spesso di riesumare dal magazzino della mente immagini di quel sogno e delle fotografie. Sembianze, visioni che si increspano, si riannodano rimescolandosi al fluire del presente. Ecco che nel fondo del lungo e tenebroso cunicolo appare una piccola sagoma chiara, una figurina: è una bambina di circa sei anni che con le braccia sfiora le pareti del tunnel che miracolosamente si dissolvono…
Pum…pum…pum… un martellante, assordante rimbombo… un trapestio continuo e cadenzato sul pietrisco dentro un lungo tunnel scavato nella roccia… Scarponi, sì sono degli scarponi che pestano per terra… Un po’ alla volta ecco delinearsi anche la divisa, l’elmo: è un soldato che da solo avanza, avanza senza sosta… Lo stridore di questo calpestio associato al rintocco del battito del cuore produce un rombo inquietante: è il suo o il mio cuore a battere? Quasi ogni notte, appoggiato il capo sul guanciale, questo frastuono lancinante e sinistro mi aspettava puntuale come la maestra in classe pronta ad affibbiarci un cinque se i compiti per casa non erano eseguiti per bene. Nonostante il sogno mi procurasse angoscia e stordimento una parte di me desiderava che quelle immagini affiorassero e quando non arrivavano le cercavo io stessa tra le pieghe della memoria dove le rinvenivo e allora il ricordo di quanto visto si accavallava col nuovo sogno... Quel pum pum pum ormai era diventato familiare. Il soldato sembrava intrappolato nel tunnel, i suoi passi non avevano fine; allora io mi sforzavo di indicargli un varco, un’apertura per fuggire da quello stretto traforo. Gridavo, urlavo ma le parole erano come strozzate, trattenute da una forza oscura e attanagliante che mi faceva svegliare madida di sudore con la bocca impastata e gli arti rattrappiti. Allora inspiravo a fondo rifugiando il mio cuore nella preghiera e coricandomi poi dall’altra parte con l’orecchio sul cuscino. Non so bene il perché, ma sta di fatto che di questo sogno non parlai mai con nessuno. «Mi raccomando, ragazzi, per casa fate una bella ricerca aiutandovi con altri testi e soprattutto intervistando parenti ed amici» ci intimò la prof. dopo averci spiegato in varie lezioni la Seconda guerra mondiale. Quello stesso giorno, dopo aver pranzato, volli subito documentarmi sull’argomento ancor prima di chiedere informazioni a genitori e nonni. Tirando fuori dallo scaffale un volume dell’Enciclopedia per Ragazzi, notai una scatola seminascosta. Ero sola a casa quel pomeriggio e spinta da grande curiosità, l’aprii. Ne uscirono dei fogli ingialliti scritti a mano, qualche cartolina, alcune lettere sgualcite e delle vecchie fotografie in bianco e nero o color seppia. In preda a forte emozione le sfogliai tra le dita finché mi si presentò davanti un giovane uomo con i pantaloni alla zuava, lo sguardo dolce e fiero e un sorriso appena abbozzato all’ombra di uno strano berretto. Ritratto con una gamba inclinata davanti l’altra, con un braccio stava appoggiato al tronco di un grosso albero di fronte a una baracca di legno. Guardai meglio: sotto i pantaloni che coprivano i ginocchi, delle ghette e ancora più sotto i piedi infilati in un paio di scarponi scuri chiusi con lacci. Nel retro della fotografia con una calligrafia aggraziata si poteva leggere la data e il nome della località.«Te le avrei mostrate io» disse mio padre rientrato. Le sue parole improvvise mi fecero sobbalzare. «Aspettavo solo che avessi l’età giusta per capire il dramma della guerra. E ora ce l’hai.» «Sei tu questo?» gli chiesi puntando l’indice sul giovane soldato. «Sì, cara, questo è tuo padre a ventiquattro anni, quando venne mandato in Russia nella zona del Don.» «Hai combattuto in Russia?» gli chiesi sbalordita. «Sono partito arruolato nell’Amir ma per fortuna sono tornato in Italia prima del grande freddo. La malattia mortale che colpì il tuo povero zio, mio fratello, sortì il mio ritorno in patria e la mia salvezza.» «Ti facevano male questi scarponi?» gli domandai. «Non erano certo comodi come pantofole ma mi ci abituai. Nel ritorno verso casa feci centinaia di km a piedi. Non sono gli scarponi chiodati indossati dai soldati che affrontarono il grande gelo» precisò. «A quaranta gradi sottozero, dai fori delle suole entrava l’umidità che faceva assiderare i piedi. Più di uno si trovò gli alluci troncati senza nemmeno accorgersene perché il congelamento fungeva da anestesia.» Continuavo a guardare sbigottita quelle grosse scarpe: com’era possibile che io le avessi viste, sentite pestare il ghiaino anni prima ignorando che mio padre era stato nella campagna di Russia? Il cuore mi batteva forte nel petto mentre stavo per raccontargli le visioni che popolavano i miei sonni in cui io, sua figlia nel sogno diventavo sua madre, ma una forza misteriosa mi trattenne inducendomi a conservarle gelosamente nello scrigno della mia memoria. Anche adesso a distanza di decenni mi capita spesso di riesumare dal magazzino della mente immagini di quel sogno e delle fotografie. Sembianze, visioni che si increspano, si riannodano rimescolandosi al fluire del presente. Ecco che nel fondo del lungo e tenebroso cunicolo appare una piccola sagoma chiara, una figurina: è una bambina di circa sei anni che con le braccia sfiora le pareti del tunnel che miracolosamente si dissolvono…
L’aula di scienze
I raggi di un timido sole si riflettevano sulle vetrine stracolme di vasi, vasetti, flaconi, barattoli di vetro posti nei ripiani. Nell’aula di Scienze dell’Istituto Tecnico “Enrico Fermi” i diciannove alunni della quinta D aspettavano le consegne della loro saccente quanto bizzosa insegnante.
«Luigi, Mattia, Fabio e anche tu, Omar, preparate l’apparecchiatura per la distillazione a pressione ridotta!» intimò seccamente la docente, una donna goffa con due enormi seni cascanti e un viso rugoso in cui due occhietti vispi riuscivano a trafiggere gli alunni dietro un paio di spesse lenti. Era solita intercalare il freddo linguaggio scientifico con vivaci motti latini straziati in grossolani costrutti. Ne risultava una sorta di allocuzione dotta e patetica al contempo.
«Voi - aggiunse rivolgendosi verso il gruppo misto più numeroso - compilate a puntino questa tabella sui diversi processi di distillazione. Mi raccomando, fate riferimento agli stati di aggregazione della materia, e non dimenticate la legge di Henry! Potete formare due sottogruppi di cinque» disse consegnando il formulario. L’improvviso boato di un tuono la fece guardare in direzione del finestrone centrale: gli ultimi sprazzi di sole filtravano tra le piccole nuvole sfrangiate, bianche e rosa, foriere di pioggia. Sospirò avvicinandosi al terzo gruppo. «Ecco un lavoretto anche per voi» sorrise in tono ironico, rivolgendosi alle cinque rimanenti allieve. «Iniziate a fare l’inventario dei minerali, delle rocce e dei fossili, la vetrina è quella in fondo lì» intimò con le labbra arricciate, indicando col dito. «D’accordo, prof, però ci dà tutte due le ore, vero?» chiese Elisabetta. «Sì, ma fugit invidia hora.... mettetevi subito al lavoro, ecco le cartelle per l’inventario» Dell’ultimo gruppetto faceva parte anche Marta, una ragazza dal viso ricoperto da una miriade di efelidi in cui brillavano due occhi verdi smeraldo. Una cascata di ricci castani sgusciava dalla bandana variopinta. «Io e Barbi facciamo i minerali, Marta e Sonia i fossili… Betty, sei da sola, ma incomincia a fare le rocce, ok?» disse con voce decisa Ludovica, quella più androgina del gruppo col seno piatto e i capelli cortissimi. «Va bene, però scrive Ludo che ha una grafia bellissima» disse Marta. «Uffa, solo questa volta!» replicò Ludovica aprendo la cartella. La professoressa tornò alla cattedra e le ragazze si suddivisero. «Marta, scendo a prendere l’astuccio» disse Sonia con uno strano sorrisetto. «Ehi, Sonia, non è che per caso ti trovi con Mauro, vero?» «Sst! - le fece eco la ragazza guardandosi intorno - zitta che non ti sentano! Dobbiamo trovarci al piano di sotto fra cinque minuti. Ho corrotto Giorda! Poi ti racconto» le bisbigliò all’orecchio con voce eccitata. «Povero bidello, ci casca sempre! Mi raccomando, fa’ attenzione!». «Marta, se passa la prof, inventa una scusa, una delle tue» disse Sonia, allontanandosi. In prossimità della parete in cui erano allineate le tre teche, una vetrina impolverata aveva catturato l’attenzione di Marta. Mentre le compagne univano i banchi, si accostò al mobile il cui interno traboccava di vasi, bottiglie, flaconi, barattoli di varia misura riposti negli scaffali. Incuriosita, si assicurò che nessuno la stesse osservando, girò la chiave, aprì le due porte e allungò il viso per scoprire cosa contenessero quei recipienti. Nelle mensole inferiori c’erano semi, germi, grani, granelli, foglioline di varie tipologie vegetali. Nei ripiani al centro e in quelli in alto riconobbe gli embrioni e i feti di varie specie animali immersi nei liquidi di conservazione. Si mise istintivamente a osservare le minuscole chiocciole, i serpentelli, le piccole larve, le grigie volute immobili, intrappolate per sempre nei contenitori. Forse qualcuno era ancora vivo, ipotizzò infantilmente, mantenuto in vita dal miracoloso liquido, e col fiato sospeso provò a controllare se qualche larva si muovesse. Un’indefinita quanto penosa sensazione si era insinuata in lei mentre scorreva con gli occhi le diciture delle etichette. Un recipiente un po’ più grande degli altri posto in fondo allo scaffale centrale aveva attirato la sua attenzione. Sfregò il vetro con il dito per togliere la polvere e vide galleggiare la sagoma di una specie di gambero dotato di due enormi sfere oculari e terminante con una sorta di pinna spiraliforme. Mentre con la coda dell’occhio cercava di anticipare la decifrazione della didascalia, un’altra parte di lei esitava e tendeva a sottrarsi. Tenendo con la mano sinistra il barattolo, con l’indice destro pulì l’etichetta, finché l’iscrizione diventò visibile: “Embrione umano di dieci settimane”. Deglutì e, colta da tremore, riuscì a riporre il recipiente al suo posto senza farlo cadere, richiudendo subito le porte. Ma allora?… pensò tra sé e sé… Aveva la bocca impastata, le mani sudate e un’ondata di dolore le attraversò il ventre e la schiena. In preda all’ansia cominciò convulsamente a contare le settimane. Erano poche… sette… forse ancora meno… sei… cinque… «Grazie, amica mia. Stasera esco con Mauro… ma che cos’hai, ti è colato tutto il rimmel!» bisbigliò Sonia euforica, rientrata furtivamente. «Vado in bagno, ho mal di pancia» rispose Marta. «Sbrigati, sta arrivando la prof» ammiccò sottovoce l’amica. «Cosa avete combinato? - tuonò l’insegnante sopraggiungendo dal lato estremo dell’aula - i vostri compagni sono già arrivati alla schedatura.» Le alunne del primo sottogruppo mostrarono la cartella che fortunatamente ottenne il consenso sperato. «E voi, care le mie ragazze?» esclamò la prof con un sorrisetto sarcastico che metteva in evidenza la gengiva molle sopra un’arcata di denti irregolari. «Ma siete in quattro… e Marta dov’è?» chiese con voce stridula. «Prof, mi scusi, Marta non si sentiva bene, è andata ai servizi!» rispose Sonia. «Zitta, Sonia, zittaaa! - sbraitò l’insegnante col volto arrossato per la rabbia, fulminando tutto il quartetto - non ci casco, sai, si giustifica sempre quella lì, e poi porta minigonne troppo corte! Un bel tre non glielo toglie nessuno.» Si avviò verso la cattedra dimenando i fianchi. Sprofondò sulla sedia lasciando cadere i seni sul ripiano, aprì di scatto il registro, scorse con l’indice i cognomi degli allievi fino ad arrivare alla penultima riga dove annotò un gigantesco tre. Compiaciuta, si asciugò col bordo del fazzoletto gli spruzzi di bava fuoriuscita dalle labbra e con voce insinuante si avvicinò al coordinatore del primo gruppo. Sfogliò velocemente il formulario. «Bene, Luigi, hai fatto proprio un buon lavoro con i compagni! - disse con voce melliflua- suvvia, ora esponi oralmente come si effettua la distillazione a pressione ridotta!» «Sì, prof. Dunque, questo tipo di distillazione - esordì il ragazzo col volto devastato dall’acne - detta anche 'distillazione nel vuoto', si esegue con apparecchi simili a quelli per la distillazione a pressione atmosferica, ma in questo caso il recipiente di raccolta del liquido è collegato al refrigerante a tenuta di vuoto e ha una tubulatura laterale cui si raccorda una pompa aspirante che riduce la pressione all’interno dell’apparecchio di distillazione…» «Basta così. Ragazzi, avete sentito? - proferì la professoressa col solito tono dolciastro - mi sembra un ottimo esempio di spiegazione, sic et simpliciter … perfetta. Ergo, un dieci è più che meritato!» concluse mentre suonava la campanella delle tredici. Marta, ancora chiusa in bagno, finì di pulire con un Kleenex il rimmel colato sulle guance che coprì con abbondante fard. Salì di corsa al piano superiore nell’aula ormai vuota, preparò lo zainetto, infilò il piumino e uscì dal grande portone della scuola. «Ancora qua, signorina?» esclamò stupito Giordano, il bidello alleato degli studenti. Marta lo salutò con la mano evitando il suo sguardo. Le nuvole si erano ammassate ma ancora non aveva iniziato a piovere. Marta prese a camminare come un automa con la vista annebbiata dalle lacrime. Gli occhi le bruciavano ma una strana sensazione di pace, di catarsi interiore gradualmente venne a sostituirsi all’angoscia. Quando alla fine del corso giunse al capitello, anziché deviare a destra, tirò dritto e uscì dal centro. Proseguì lungo la via acciottolata fino all’oratorio di San Michele, oltrepassò la rotonda finché, senza rendersene conto, si trovò a camminare sul margine della carreggiata della strada provinciale nello stesso senso di circolazione dei veicoli. Il rombo delle automobili che le sfrecciavano rasente, le arrivava agli orecchi attutito, ovattato. Un ciclista le aveva fischiato ma Marta continuava a camminare inghiottendo polvere, lacrime e le prime gocce di pioggia. Non sentiva né fame né sete, andava avanti come in trance. D’improvviso nella mente si configurò l’immagine di un ragazzo. Non era bene riconoscibile nei tratti somatici, avanzava mite e sorridente con un fagottino in braccio avvolto in una coperta… lei gli correva incontro… Completamente immersa nel flusso delle emozioni, slittò nella corsia stradale mentre l’assordante stridio della frenata si sovrapponeva al suono del clacson impazzito…
I raggi di un timido sole si riflettevano sulle vetrine stracolme di vasi, vasetti, flaconi, barattoli di vetro posti nei ripiani. Nell’aula di Scienze dell’Istituto Tecnico “Enrico Fermi” i diciannove alunni della quinta D aspettavano le consegne della loro saccente quanto bizzosa insegnante.
«Luigi, Mattia, Fabio e anche tu, Omar, preparate l’apparecchiatura per la distillazione a pressione ridotta!» intimò seccamente la docente, una donna goffa con due enormi seni cascanti e un viso rugoso in cui due occhietti vispi riuscivano a trafiggere gli alunni dietro un paio di spesse lenti. Era solita intercalare il freddo linguaggio scientifico con vivaci motti latini straziati in grossolani costrutti. Ne risultava una sorta di allocuzione dotta e patetica al contempo.
«Voi - aggiunse rivolgendosi verso il gruppo misto più numeroso - compilate a puntino questa tabella sui diversi processi di distillazione. Mi raccomando, fate riferimento agli stati di aggregazione della materia, e non dimenticate la legge di Henry! Potete formare due sottogruppi di cinque» disse consegnando il formulario. L’improvviso boato di un tuono la fece guardare in direzione del finestrone centrale: gli ultimi sprazzi di sole filtravano tra le piccole nuvole sfrangiate, bianche e rosa, foriere di pioggia. Sospirò avvicinandosi al terzo gruppo. «Ecco un lavoretto anche per voi» sorrise in tono ironico, rivolgendosi alle cinque rimanenti allieve. «Iniziate a fare l’inventario dei minerali, delle rocce e dei fossili, la vetrina è quella in fondo lì» intimò con le labbra arricciate, indicando col dito. «D’accordo, prof, però ci dà tutte due le ore, vero?» chiese Elisabetta. «Sì, ma fugit invidia hora.... mettetevi subito al lavoro, ecco le cartelle per l’inventario» Dell’ultimo gruppetto faceva parte anche Marta, una ragazza dal viso ricoperto da una miriade di efelidi in cui brillavano due occhi verdi smeraldo. Una cascata di ricci castani sgusciava dalla bandana variopinta. «Io e Barbi facciamo i minerali, Marta e Sonia i fossili… Betty, sei da sola, ma incomincia a fare le rocce, ok?» disse con voce decisa Ludovica, quella più androgina del gruppo col seno piatto e i capelli cortissimi. «Va bene, però scrive Ludo che ha una grafia bellissima» disse Marta. «Uffa, solo questa volta!» replicò Ludovica aprendo la cartella. La professoressa tornò alla cattedra e le ragazze si suddivisero. «Marta, scendo a prendere l’astuccio» disse Sonia con uno strano sorrisetto. «Ehi, Sonia, non è che per caso ti trovi con Mauro, vero?» «Sst! - le fece eco la ragazza guardandosi intorno - zitta che non ti sentano! Dobbiamo trovarci al piano di sotto fra cinque minuti. Ho corrotto Giorda! Poi ti racconto» le bisbigliò all’orecchio con voce eccitata. «Povero bidello, ci casca sempre! Mi raccomando, fa’ attenzione!». «Marta, se passa la prof, inventa una scusa, una delle tue» disse Sonia, allontanandosi. In prossimità della parete in cui erano allineate le tre teche, una vetrina impolverata aveva catturato l’attenzione di Marta. Mentre le compagne univano i banchi, si accostò al mobile il cui interno traboccava di vasi, bottiglie, flaconi, barattoli di varia misura riposti negli scaffali. Incuriosita, si assicurò che nessuno la stesse osservando, girò la chiave, aprì le due porte e allungò il viso per scoprire cosa contenessero quei recipienti. Nelle mensole inferiori c’erano semi, germi, grani, granelli, foglioline di varie tipologie vegetali. Nei ripiani al centro e in quelli in alto riconobbe gli embrioni e i feti di varie specie animali immersi nei liquidi di conservazione. Si mise istintivamente a osservare le minuscole chiocciole, i serpentelli, le piccole larve, le grigie volute immobili, intrappolate per sempre nei contenitori. Forse qualcuno era ancora vivo, ipotizzò infantilmente, mantenuto in vita dal miracoloso liquido, e col fiato sospeso provò a controllare se qualche larva si muovesse. Un’indefinita quanto penosa sensazione si era insinuata in lei mentre scorreva con gli occhi le diciture delle etichette. Un recipiente un po’ più grande degli altri posto in fondo allo scaffale centrale aveva attirato la sua attenzione. Sfregò il vetro con il dito per togliere la polvere e vide galleggiare la sagoma di una specie di gambero dotato di due enormi sfere oculari e terminante con una sorta di pinna spiraliforme. Mentre con la coda dell’occhio cercava di anticipare la decifrazione della didascalia, un’altra parte di lei esitava e tendeva a sottrarsi. Tenendo con la mano sinistra il barattolo, con l’indice destro pulì l’etichetta, finché l’iscrizione diventò visibile: “Embrione umano di dieci settimane”. Deglutì e, colta da tremore, riuscì a riporre il recipiente al suo posto senza farlo cadere, richiudendo subito le porte. Ma allora?… pensò tra sé e sé… Aveva la bocca impastata, le mani sudate e un’ondata di dolore le attraversò il ventre e la schiena. In preda all’ansia cominciò convulsamente a contare le settimane. Erano poche… sette… forse ancora meno… sei… cinque… «Grazie, amica mia. Stasera esco con Mauro… ma che cos’hai, ti è colato tutto il rimmel!» bisbigliò Sonia euforica, rientrata furtivamente. «Vado in bagno, ho mal di pancia» rispose Marta. «Sbrigati, sta arrivando la prof» ammiccò sottovoce l’amica. «Cosa avete combinato? - tuonò l’insegnante sopraggiungendo dal lato estremo dell’aula - i vostri compagni sono già arrivati alla schedatura.» Le alunne del primo sottogruppo mostrarono la cartella che fortunatamente ottenne il consenso sperato. «E voi, care le mie ragazze?» esclamò la prof con un sorrisetto sarcastico che metteva in evidenza la gengiva molle sopra un’arcata di denti irregolari. «Ma siete in quattro… e Marta dov’è?» chiese con voce stridula. «Prof, mi scusi, Marta non si sentiva bene, è andata ai servizi!» rispose Sonia. «Zitta, Sonia, zittaaa! - sbraitò l’insegnante col volto arrossato per la rabbia, fulminando tutto il quartetto - non ci casco, sai, si giustifica sempre quella lì, e poi porta minigonne troppo corte! Un bel tre non glielo toglie nessuno.» Si avviò verso la cattedra dimenando i fianchi. Sprofondò sulla sedia lasciando cadere i seni sul ripiano, aprì di scatto il registro, scorse con l’indice i cognomi degli allievi fino ad arrivare alla penultima riga dove annotò un gigantesco tre. Compiaciuta, si asciugò col bordo del fazzoletto gli spruzzi di bava fuoriuscita dalle labbra e con voce insinuante si avvicinò al coordinatore del primo gruppo. Sfogliò velocemente il formulario. «Bene, Luigi, hai fatto proprio un buon lavoro con i compagni! - disse con voce melliflua- suvvia, ora esponi oralmente come si effettua la distillazione a pressione ridotta!» «Sì, prof. Dunque, questo tipo di distillazione - esordì il ragazzo col volto devastato dall’acne - detta anche 'distillazione nel vuoto', si esegue con apparecchi simili a quelli per la distillazione a pressione atmosferica, ma in questo caso il recipiente di raccolta del liquido è collegato al refrigerante a tenuta di vuoto e ha una tubulatura laterale cui si raccorda una pompa aspirante che riduce la pressione all’interno dell’apparecchio di distillazione…» «Basta così. Ragazzi, avete sentito? - proferì la professoressa col solito tono dolciastro - mi sembra un ottimo esempio di spiegazione, sic et simpliciter … perfetta. Ergo, un dieci è più che meritato!» concluse mentre suonava la campanella delle tredici. Marta, ancora chiusa in bagno, finì di pulire con un Kleenex il rimmel colato sulle guance che coprì con abbondante fard. Salì di corsa al piano superiore nell’aula ormai vuota, preparò lo zainetto, infilò il piumino e uscì dal grande portone della scuola. «Ancora qua, signorina?» esclamò stupito Giordano, il bidello alleato degli studenti. Marta lo salutò con la mano evitando il suo sguardo. Le nuvole si erano ammassate ma ancora non aveva iniziato a piovere. Marta prese a camminare come un automa con la vista annebbiata dalle lacrime. Gli occhi le bruciavano ma una strana sensazione di pace, di catarsi interiore gradualmente venne a sostituirsi all’angoscia. Quando alla fine del corso giunse al capitello, anziché deviare a destra, tirò dritto e uscì dal centro. Proseguì lungo la via acciottolata fino all’oratorio di San Michele, oltrepassò la rotonda finché, senza rendersene conto, si trovò a camminare sul margine della carreggiata della strada provinciale nello stesso senso di circolazione dei veicoli. Il rombo delle automobili che le sfrecciavano rasente, le arrivava agli orecchi attutito, ovattato. Un ciclista le aveva fischiato ma Marta continuava a camminare inghiottendo polvere, lacrime e le prime gocce di pioggia. Non sentiva né fame né sete, andava avanti come in trance. D’improvviso nella mente si configurò l’immagine di un ragazzo. Non era bene riconoscibile nei tratti somatici, avanzava mite e sorridente con un fagottino in braccio avvolto in una coperta… lei gli correva incontro… Completamente immersa nel flusso delle emozioni, slittò nella corsia stradale mentre l’assordante stridio della frenata si sovrapponeva al suono del clacson impazzito…